Opern

Del Teatro, 03. Februar 2011
Parsifal di Wagner, regia di Romeo Castellucci

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Parsifal secondo Romeo Castellucci
Uno dei più importanti giornali del Belgio, Le Soir, dichiara che la regia del Parsifal di Wagner ideata da Romeo Castellucci "fera date", ovvero farà epoca. E questo dà innanzitutto l'idea della calorosissima accoglienza che il pubblico raccolto il 27 gennaio scorso al Thèatre de la Monnaie di Bruxelles ha tributato allo spettacolo. Eppure non si tratta certo di un operazione facile, anzi , va dato atto al brillante direttore del teatro d'opera Peter de Caluwe, di aver avuto un'intuizione davvero felice nell'accostare il nome dell'artista italiano alla complessa partitura wagneriana, seguendo quella linea che nella scorsa stagione lo aveva portato ad associare il nome di William Kentridge, teatrante e creatore di cupi cartoni animati, al Flauto magico di Mozart.
Qui il tentativo è ancora più azzardato e coraggioso, non solo perché si tratta della prima regia lirica di Castellucci, ma perché vengono messi a confronto due veri e propri universi estetici e immaginativi, in qualche modo autosufficienti e chiusi su se stessi. Da una parte l'ultima opera del grande compositore tedesco, sull'allestimento della quale lo stesso autore aveva idee molto chiare, tanto da pensare che potesse essere realizzata soltanto nel suo teatro di Bayreuth. Dall'altra parte c'è la cosmogonia creativa di Romeo Castellucci, che negli ultimi tempi era ormai abituato a non rifarsi a testi o musiche preesistenti, partendo magari dalle suggestioni fornite da alcune città europee, come per la Tragedia Endogonidia, oppure traendo libera ispirazione dalla Divina Commedia, della quale però non citava neppure una parola.
Ora l'artista italiano si trova costretto ad affrontare un testo altrui, a fare i conti con un'altra scrittura che non è la sua, a doversi mettere in relazione con una costruzione di straordinaria imponenza e complessità. Il regista si mette allora in ascolto, si fa permeare da quelle onde sonore e da quelle parole, dalla tessitura musicale, ma poi, come lui stesso dichiara, dimentica tutto e lascia andare la sua potente visionarietà. Il primo risultato è la cancellazione di tutti quei simboli che fanno da struttura all'opera, sia come elementi di snodo narrativo che come ricorrenze tematiche e musicali, il Graal, la lancia di Longino, il cigno, giacchè, sempre per seguire le note del regista non si tratta di mettere in gioco "una strategia illustrativa", ma "un titolo come questo richiede una visione che nasce dal profondo".

Il primo atto in cui incontriamo i cavalieri custodi della sacra coppa nella foresta, riuniti intorno al loro capo, Amfortas, ferito, ci mostra una fitta boscaglia con guerriglieri in mimetica. Nell'inestricabile e cupo fogliame vengono nascosti cantanti e coristi, alle prese con torce che fendono il buio degli arbusti. Ed è già una lettura attenta e consapevole quella che ci viene offerta, i cavalieri sono smarriti, vivono ai margini della comunità, asserragliati nei loro riti, ma incapaci di uscire da quella dimensione.

Ma è il secondo atto a dispiegare tutta la ricchezza non solo creativa ma interpretativa di Castellucci: ecco una delle sue scene bianco latte con luci fredde, siamo nel giardino di Klingsor, l'aspirante cavaliere trasformatosi in traditore che ha creato un luogo di peccaminose delizie con lo scopo di trasformare i cavalieri del Graal in viziosi debosciati. Nel baluginio lunare alcune donne vengono appese in aria e legate con corde come per una pratica masochistica orientale e l'ambigua Kundry, che vuole sedurre e fiaccare l'anima del puro e ingenuo Parsifal, è una dama in bianco con il pitone albino (che fa da icona di questa messa in scena), il quale si contorce intorno al suo avambraccio, mentre il mago-soldato maligno altri non è che un direttore d'orchestra in frak con un suo sosia alle spalle che ne raddoppia i gesti. Ma, dicevamo, il regista è in attento ascolto, la dimensione visiva non schiaccia mai la tessitura musicale e la traccia del racconto, anzi, miracolosamente lo esalta, lo rende ancor più esplicito ed emozionante, con la straordinaria presenza del contralto Anna Larrson e del tenore Andrew Richards e il Klingsor di Tomas Tomasson.

Castellucci non cerca in alcun modo di uscire da quel mondo, pur decidendo di ricrearlo completamente. Al regista interessano davvero i temi suggeriti dall'opera, il contrasto fra perdizione e santità, fra la ricerca di una via interiore eticamente delineata e la seduzione, lo smarrimento di sé, il cedimento tra i mille rivoli di passioni effimere. Il suo sguardo rimane attento a quel racconto, che riguarda tutti noi, sulla possibilità di ridisegnare il nostro destino e quello degli altri uomini, di sentirsi parte attiva e decisiva di una collettività. Ma tra le scelte radicali da lui compiute, il regista include anche quella di non seguire il testo musicale e drammaturgico nella sua intenzione cristologica, che certo ne rappresenta una delle tensioni più forti, di non farsi intrappolare da quella rete di indicazioni che rimandano esplicitamente al cattolicesimo, tra riti del venerdì santo e celebrazioni eucaristiche, proprio quelle che fecero indignare Nietzche, tanto da farlo allontanare dal compositore da lui più amato, perché a suo dire si era gettato ai piedi della croce.

Eppure proprio Romeo nel suo ultimo spettacolo ragionava intorno al volto del Cristo e a un intreccio di sguardi tra un gigantesco Gesù pantocratore e un padre e un figlio alle prese con le tristi incombenze della vecchiaia. Oggi, sembra invece dire il regista, è meglio accantonare la tanto dibattuta querelle sulla svolta cristiana di Wagner e leggere l'opera nelle sue altre tracce e semmai in un'aspirazione a un'idea più allargata e sincretistica della religione.
Castellucci fornisce però un'indicazione chiara sulla questione, tant'è che tutta la messa in scena si apre proprio con una gigantografia del profilo del filosofo e con il serpente bianco che si contorce vivo all'altezza del suo orecchio, come a dire di un rapporto ambiguo di seduzione tra quella musica e il pensatore.
Lo spostamento di prospettiva su linee per noi più attuali viene dimostrato proprio dal terzo atto, chiuso in un cubo nero, dove si assiste alla marcia di una folla di centosettanta figuranti, come quella presente nella rappresentazione dell'Inferno dantesco, una sorta di quarto stato che procede deciso insieme a Parsifal, una volta che, rifiutato il peccato e appropriatosi della lancia sacra, il puro e folle cavaliere rende possibile la redenzione e il riscatto di tutti i suoi compagni. Parsifal abbandona la montagna e scende nel mondo, o meglio nella città, e infatti dall'alto calerà la gigantesca foto rovesciata di una metropoli. A ciascuno la sua possibilità di lettura, così come vuole questo regista che non ama l'ermeneutica applicata alle sue immagini, e anzi non vuole neppure che le sue costruzioni sceniche siano ridotte a un puro accumulo simbolico e seducente di visioni, considerando semmai le sue complesse costruzioni come segni che poi vivono autonomamente nella mente dello spettatore, vero palcoscenico dell'azione teatrale.
Ma quella marcia su un tapis roulant di corpi e volti anonimi con abiti quotidiani fa davvero mescolare pensieri, idee, ipotesi. La lunga avanzata in proscenio ha tutto il tempo per diventare un potente quadro di rappresentazione di qualcosa di profondamente umano. Ognuno se lo spieghi a suo modo.

Ovazioni di un pubblico tanto attento e colto quanto aperto e generoso a tutta l'impeccabile compagnia, compresi l'Amfortas di Thomas Johannes Mayer, il Titurel di Victor von Halem e il Gurnemanz di Jan-Hendrik Rootering, e al direttore d'orchestra Hartmut Haenchen. Il quale non cerca languori in questa complessa partitura, ma la delinea con nitidezza ed energia. Possibile non essere d'accordo con chi dice che questa messa in scena farà epoca?