Opera

www.drammaturgia.it, 10. February 2011
Evento di risonanza internazionale, passato relativamente inosservato proprio in Italia, l’esordio di Romeo Castellucci nella regia operistica è avvenuto a Bruxelles, cui l’artista italiano intitolò uno dei suoi spettacoli di maggior successo: e che il debutto dovesse avvenire con un testo atipico come Parsifal – secondo la lectio wagneriana non un’opera ma un Bühnenweihfestspiel, ovvero, tradotto alla grossa, una “sacra rappresentazione scenica” – era forse una scelta obbligata per un regista come lui, fedele alla musa di un teatro tendenzialmente afasico e antinarrativo. Il risultato? Théâtre de la Monnaie stracolmo a tutte le repliche, grande affluenza della critica teatrale oltre che di quella musicale, un impatto di grande visionarietà capace di suggerire – come sempre nei lavori di Castellucci, anche quando li firmava con la griffe della Socíetas Raffaello Sanzio – interpretazioni differenti a ciascun spettatore.


Foto di Bernd Uhlig

Chissà se è anche un bello spettacolo. Tra tante possibili decifrazioni l’unico dato oggettivo è che la messinscena, con il buio fitto del primo atto e l’abbagliante luce lattiginosa del secondo, mette a dura prova il nervo ottico degli spettatori; ma siccome anche la fisiologia risponde, entro certi limiti, a parametri soggettivi converrà evitare affermazioni assolutistiche pure su questo. Per il resto, il dato più saliente del Parsifal di Castellucci è la sensazione di molteplicità che trasmette: i tre atti danno l’idea di altrettanti spettacoli, giocati su registri estetici ed espressivi del tutto diversi tra loro, anche se poi, al definitivo calar di sipario, una reductio ad unum è possibile. L’idea – si direbbe – è quella d’illustrare tre differenti ipotesi di vita, o tre differenti stagioni dell’umanità. Il primo atto è quello della simbiosi tra l’uomo e la natura: la «selva solenne e ombrosa, ma non buia» descritta da Wagner cede il passo a una boscaglia avvolta da tenebre fittissime, forse a ricordarci che la fede permette di vedere pure nell’oscurità, e i cavalieri del Graal – con i loro costumi che camaleonticamente rispecchiano colori e forme delle foglie – si confondono con la vegetazione fino a identificarsi con essa. Che poi a qualcuno la cosa possa far venire in mente la semovente foresta di Birnam di shakespeariana memoria, o, più prosaicamente, le tute mimetiche dei paracadutisti, rientra nel gioco delle molteplici interpretazioni.

Il secondo atto – quello del giardino incantato di Klingsor – ci porta invece nel mondo dei paradisi artificiali. È il momento meno “operistico” dello spettacolo o, almeno, quello dove Castellucci più spesso ricorre a stilemi di tutt’altra provenienza, dal teatro-danza alle videoinstallazioni (già prima che la musica cominci scorrono su uno schermo le proprietà chimiche di veleni e allucinogeni). L’estenuato erotismo del quadro della fanciulle-fiore è risolto in un’asepsi da gabinetto ginecologico, mentre certi affondi ironici appaiono spiritosi ma fuor di luogo: la natura demiurgica di Klingsor viene tradotta raffigurandolo come un direttore d’orchestra, e la sua auto-evirazione simboleggiata da un braccio volante alla Magritte, cogliendo così l’occasione, visto che siamo a Bruxelles, per omaggiare un grande belga del Novecento. Viene quasi il sospetto che Castellucci faccia propria la visione di Nietzsche, che vedeva nel secondo atto del Parsifal uno scantonamento involontariamente operettistico. Ma il rapporto conflittuale tra l’estremo capolavoro wagneriano e il filosofo di Röcken – che rimproverava al musicista questa “caduta” nel cristianesimo ottimista, dopo il paganesimo pessimista su cui si chiudeva Il crepuscolo degli dei – è un po’ al centro di tutto lo spettacolo, fin dal preludio del primo atto, contrappuntato dal primo piano di un’immagine di Nietzsche che sembra ascoltare insieme diffidente e incantato.


Foto di Bernd Uhlig

L’ultimo atto è il più spoglio di elementi scenografici, nonché, agli occhi di chi scrive, il più catturante. È per Wagner l’atto della Redenzione, ma si tratta di una salvezza – sembra volerci dire Castellucci – che può passare solo attraverso la solitudine cui è votato l’uomo moderno. Si passa dunque dall’umanità “della natura” del primo atto a un’umanità metropolitana: e l’istantanea su cui si chiude lo spettacolo è quella di Parsifal solo con se stesso, mentre sullo sfondo del palcoscenico, nudo fino a quel momento, cala l’immagine di una città costellata da profili di grattacieli. Anche se la visione più forte, poco prima, è quella che scandisce l’Incantesimo del Venerdì Santo: una lunga marcia di uomini e donne, vecchi e bambini, in cammino eppure immobili (un effetto realizzato attraverso lo scorrimento di un tapis roulant), che evoca quel «Io vado lento, ma mi sembra di correre» che è forse la battuta-chiave del protagonista, ma rinvia pure – in ideale antitesi al proverbiale antisemitismo wagneriano – all’eterna idea di ebreo errante.

Una messinscena di personalità così spiccata poteva fagocitare il versante musicale. Hartmut Haenchen è stata la bacchetta ideale per uno spettacolo come questo: una direzione che non cozza con quanto si vede in palcoscenico, senza per questo rinunciare a una propria lettura e idiomaticità. È un Parsifal attento alla dimensione costruttiva piuttosto che alle individualità timbriche e, soprattutto nel primo atto, di tempi più spediti rispetto alla tradizione, senza per questo apparire poco meditata: la celebre indicazione apposta al preludio – «Sehr langsam», “molto lento” – potrebbe sembrare disattesa, volendo prenderla alla lettera, ma Haenchen conferisce al brano un andamento assorto che un’idea di lentezza comunque la trasmette. E anche il suono chiaro ma non diafano dell’orchestra della Monnaie – lontana dalle rocciosità della “linea Knappertsbusch” come dalle trasparenze della “linea Karajan” – ben si presta al Parsifal cantabile e narrativo, anziché declamatorio ed evocativo, impresso dalla concertazione di Haenchen.

Semmai sono stati i cantanti – almeno alcuni – che hanno sofferto della griglia in cui il regista li ha fatti muovere; o forse, più semplicemente, si sono talmente immedesimati nel gioco visivo architettato da Castellucci da riservare la maggior parte della concentrazione al versante scenico. Di fatto, il buio quasi costante in cui la regia ha fatto muovere il primo atto si è tradotto in un’omogeneizzazione delle vocalità: soprattutto per Gurnemanz si sarebbe desiderato un fraseggio più frastagliato (e, all’occorrenza, un canto più legato) di quello offerto da Jan-Hendrik Rootering, veterano di solido valore professionale ma legato a una concezione troppo monolitica del personaggio, almeno rispetto a quanto dovrebbe suggerire uno spettacolo come questo. E anche Anna Larsson, sebbene non lo desse a vedere, doveva avere qualche tensione a cantare con un serpente (vero) attorno al braccio. Per il resto, la sua è una Kundry di taglia mezzosopranile – un po’ a disagio nell’altimetria complessiva della scrittura vocale, ma sicura e timbrata nella discesa al Sol grave difficilmente onorata dai soprani – e forse non del tutto eloquente nello sviscerare le diverse anime del personaggio (Donna e Bestia, peccatrice e penitente), ma comunque espressiva.

Andrew Richards è un protagonista lirico e trasognato, deficitario solo nei rari momenti eroici del personaggio (dove la voce tende a sbiancarsi), mentre del Klingsor di Tómas Tómasson si loderà la duttilità attoriale, non la valentia canora. Per contro, Thomas Johannes Mayer è un Amfortas non solo autorevole sul piano scenico, ma anche di linea vocale più robusta di quanto attualmente sia dato ascoltare. Mentre il vecchio Victor von Halem, che già cantò Titurel con Karajan, fa sostanzialmente l’icona di se stesso replicando ancor oggi, non senza efficacia, quest’oltretombale personaggio fuori scena.

Lo spettacolo è da consigliare ai filo e agli antiwagneriani, ai tradizionalisti come agli innovatori, anche se entusiasmi e perplessità potranno giustapporsi. Restiamo all’interno dell’attuale filosofia per cui il musicista propone e il regista dispone, ma questo Parsifal fa storia a sé. Chissà che la cifra visiva di Castellucci – una commistione tra artigianato di antica scuola e sollecitazioni postmoderne – non sia, anche al di là delle intenzioni del regista, il modo migliore di tradurre per immagini l’irrappresentabile cosmo wagneriano, e dar vita a quella “scena invisibile” che lo stesso Wagner definiva l’unica via per mettere in scena i propri lavori.